Era un pomeriggio di fine luglio del 2021 quando ho incontrato per la prima volta il dott. Massimiliano de Vecchi. In quel piccolo tempo passato insieme ho cominciato ad immaginare, attraverso le sue parole, quello che sarebbe potuto diventare la creazione di uno spettacolo che mette in scena delle vite così profondamente segnate dal dolore. Un dolore che ha abitato corpi, sguardi e tessuti emotivi. Rilke scrive: “Le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essere spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare”.
Il teatro per essere vivo, non convenzionale, ha bisogno di ferite. Ne avevamo già due, profonde e contrapposte. I medici e gli infermieri che durante la prima ondata di pandemia, lavoravano senza tregua in condizioni estreme e io che, come lavoratrice dello spettacolo dal vivo, nello stesso periodo sono rimasta totalmente priva di lavoro. Lo smarrimento e la vulnerabilità ci univano.
La mia proposta per iniziare questo percorso è stata di precipitare di nuovo in quei giorni. Così, senza rete. Ed ecco che la memoria si è fatta carne: gesti tremanti, occhi lucidi, voci spezzate. La pratica teatrale diventava necessaria per la rielaborazione del trauma ma soprattutto quei corpi sensibili e quelle narrazioni così urgenti e generose si trasformavano in ciò che il teatro deve essere: il luogo di disvelamento dell’umanità in tutte le sue pieghe.